giovedì 9 gennaio 2014

La storia dell’Italia fascista


   Alla fine della guerra 15-18 i governi italiani, incapaci di risolvere la crisi economica del nostro paese, aprirono la porta alla dittatura fascista. Mussolini, allora direttore de “L’Avanti” tradì i suoi ideali socialisti e, da uomo ambizioso di potere quale era, si vendette al potere degli agrari e dei capitalisti italiani. Organizzò le squadre fasciste che, ammazzando e massacrando gli oppositori e terrorizzando la popolazione si impadronirono del potere. Nel 1924 furono svolte le elezioni politiche che consacrarono la vittoria elettorale del fascismo. Ma parliamo un po’ di come si svolsero.
   I seggi elettorali erano presieduti dai fascisti vestiti in grigioverde con la camicia nera, simbolo del fascismo, e con il fez col teschio disegnato sopra. Avevano le schede già compilate e chiedevano pubblicamente all’elettore se la lista presentata era di suo gradimento. In caso affermativo la scheda veniva posta direttamente nell’urna senza entrare in cabina. In caso contrario, l’elettore che voleva una scheda bianca ed entrava in cabina,  veniva schedato, offeso all’uscita e bastonato o subito o nel giro di pochi giorni od ore. Nei giorni seguenti tutti i giornali, ormai sotto il controllo completo del regime,  inneggiarono al grande successo elettorale del fascismo.
   Durante il  ventennio fascista era  pressoché obbligatorio avere la tessera del partito fascista ed i giovani dovevano svolgere il servizio premilitare: un corso di tre mesi, con esame finale, che precedeva il servizio militare vero e proprio. Alla fine del corso il podestà di Carpi ci tenne un discorso esaltando il fascismo e dicendo che quella era per noi l’occasione di avere l’onore di entrare nelle file del partito fascista. Io rifiutai di ritirare il modulo d’iscrizione, dicendo semplicemente che  sapevo come e dove andare a prendere la tessera. Il giorno dell’esame, era di domenica, io mi presentai con una lettera del parroco di Mandrio di Correggio che sollecitava la prova d’esame per consentirmi di andare a suonare in chiesa e fui esaminato per primo. Forse per la raccomandazione del parroco, forse perché fui il primo, non mi chiesero nessun documento e me la cavai senza neppure prendere la tessera del fascio. Ma non fu così per tutti gli altri. Se qualcuno si rifiutava, mandavano a chiamare i genitori e li minacciavano anche. Intorno al 1934 Mussolini imponeva ai datori di lavoro di licenziare tutti i dipendenti che non erano in possesso della tessera del fascio e così parecchi milioni di impiegati statali e di dipendenti di aziende pubbliche e private furono costretti a prendere la tessera per non mettere alla fame le loro famiglie. Nelle campagne questa legge fu applicata in modo più blando. Il presidente della cooperativa alle cui dipendenze mio padre lavorava come casaro, gli aveva detto che se non prendeva la tessera avrebbe dovuto licenziarlo. Al ché mio padre disse che non avrebbe preso la tessera e che si assumeva tutte le responsabilità della sua scelta. In seguito, vuoi per la guerra in africa, o per altri avvenimenti, il licenziamento non ebbe seguito e mio padre rimase sul suo posto di lavoro fino alla pensione. Posso dire con  una punta di orgoglio che nessuno della nostra famiglia ha mai aderito al partito fascista e non abbiamo mai fatto mistero della nostra avversione alla dittatura fascista. Riconosco però che ciò fu possibile anche perché la nostra posizione come casari godeva di un certo prestigio nell’ambiente in cui vivevamo, al pari del mugnaio, del bottegaio o del prete. Per tutti gli altri l’opposizione al regime costava persecuzioni, bastonate, galera e confino. E questo per le famiglie significava fame.


Leone Sacchi                       Bologna 20/02/2010   

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