Il mio lavoro di
casaro era parallelo a quello dei contadini che conferivano il loro latte al
caseificio.
Ai miei tempi la
maggior parte dei contadini gestiva un podere a mezzadria con il proprietario
del fondo. Esisteva anche la piccola proprietà contadina in una percentuale
sull’ordine del cinque per cento. Poi c’era la categoria dei boari,
assimilabile a quella dei braccianti, che venivano pagati con miseri stipendi.
Le case erano grandi edifici che comprendevano l’abitazione della famiglia del
contadino, la stalla, il fienile, la rimessa degli attrezzi, e tutti gli
impianti necessari alla conduzione del podere. Di solito l’abitazione del
contadino era malandata per scarsa manutenzione. Così non erano le stalle perché
lì il proprietario ci teneva a fare tutte le opere di manutenzione necessarie
alla buona gestione degli animali ed alla corretta gestione dei prodotti.
Ma torniamo al
lavoro dei contadini. Uno dei lavori più importanti era costituito dalla
gestione della stalla. Si trattava di un lavoro che copriva tutto l’arco
dell’anno e di grande responsabilità perché da esso dipendeva buona parte del
reddito della famiglia. Le mucche passavano tutta la loro vita legate con delle
catene a due per due per ogni scompartimento. Lì mangiavano, dormivano sdraiate
sulla paglia, facevano i loro bisogni, venivano lavate e munte. Uscivano di lì
una volta all’anno per la monta, finché non fu introdotta la fecondazione
artificiale. Qualche volta il contadino ne usava due o quattro per arare, se
non disponeva di un paio di buoi.
Il primo lavoro
mattutino era quello della pulizia della stalla che cominciava alla cinque e
richiedeva circa un’ora. Alle sei cominciava la mungitura a mano ed alle sette
si portava il latte al caseificio. Quando ero ragazzo io, fra il 20 ed il 30
del secolo scorso, i contadini non avevano né carretti né biciclette e
portavano il latte al caseificio con un bastone ricurvo, detto bazèl, portato a
spalla con due secchi o bidoni appesi alle estremità. Mentre qualcuno della
famiglia portava il latte al caseificio, gli altri provvedevano ad abbeverare
le mucche. Si prelevava l’acqua dal pozzo con delle catene tirate a mano e poi
si portavano i secchi davanti alle mucche. Nel periodo estivo le mucche venivano
alimentate con l’erba medica falciata giorno per giorno. Di buon mattino gli
uomini, uno o due, andavano nei campi e falce alla mano tagliavano l’erba
necessaria, che poi provvedevano a raccogliere, caricare sul carro e portare a
casa. Questo di solito era il lavoro giornaliero di un povero somarello, che di
giorno se ne stava tutto solo nello stallino. D’estate, quando l’erba
cominciava a scarseggiare si ricorreva alle foglie degli olmi. Generalmente
questo lavoro pesante ed anche pericoloso veniva lasciato ai giovani, che
salivano sugli alberi con lunghissime scale e pelavano gli alberi frasca dopo
frasca riempiendo dei lunghi sacchi di tela.
La primavera era la
stagione della fienagione. Si tagliava il fieno con la falce, lo si distendeva
sui campi e lo si rigirava varie volte per farlo asciugare ben bene. Quando il
fieno era secco lo si caricava sui carri e lo si portava nel fienile, facendo
ben attenzione ad evitare i temporali, frequenti in quella stagione. Si sa che
il fieno umido fermenta, si scalda e può produrre l’incendio del fienile e la
perdita degli animali e dei poveri averi della famiglia. Durante il periodo
invernale il fieno veniva calato nella stalla sottostante attraverso la tromba,
un’apertura che metteva in comunicazione il fienile con la stalla sottostante e
poi distribuito nelle greppie delle mangiatoie. L’alimentazione delle mucche
veniva integrata anche con farine e biade.
Il secondo prodotto
per importanza nell’economia famigliare contadina era costituito dal vino.
In primavera allo scioglimento delle nevi si provvedeva alla
potatura delle viti che venivano tese fra un olmo e l’altro a formare i filari
per dare luce alle piante. Ai bambini competeva la raccolta degli stecchi della
potatura ed il confezionamento della fascine per gli usi domestici e per il
caseificio.
Il secondo lavoro
importante era quello di “dare l’acqua”. Si chiamava così l’irrorazione delle
viti con il solfato di rame. Si riempiva una botte di acqua e si metteva in
soluzione il solfato di rame. Quando la soluzione era pronta si trascinava la
botte nei campi lungo i filari, si versava la soluzione nei mastelli e da lì,
con una pompa a mano si spruzzavano le viti. L’operazione era resa
faticosa dalla necessità di trascinare
dei lunghi tubi di gomma retti da canne sulle quali erano sistemati gli ugelli.
Per di più bisognava proteggersi il corpo e particolarmente la faccia e gli
occhi, perché il vento finiva sempre per far piovere questa nebbiolina addosso
agli operatori. Questa operazione veniva ripetuta due volte: prima della
fioritura e dopo la comparsa degli acini.
La vendemmia veniva
svolta verso la fine di settembre. Le viti a quel tempo erano tenute alte per
permettere l’utilizzo del terreno per altre colture, tipo grano o erba medica e
la vendemmia doveva essere effettuata con delle scale, fabbricate dai contadini
nelle lunghe giornate invernali. Ci si serviva di scale normali, appoggiate
agli olmi o di scale a tre piedi, dette scalampie, che non richiedevano nessun
appoggio e permettevano la vendemmia lungo le parti delle viti tese fra gli
alberi. L’uva veniva staccata manualmente, posta nei casti, appesi alla scala e
poi portata in cantina con i birocci, badando di non gualcirla per non perdere
il succo per strada. L’uva poi veniva pigiata con i piedi dentro alle tinozze e
poi posta dentro ai tini per la necessaria fermentazione. Questo della
pigiatura dell’uva era un lavoro piacevolissimo, che di solito veniva affidato
ai ragazzi ed alle ragazze della casa. Da qui, dopo alcuni giorni, veniva
prelevato il mosto e posto nelle botti di rovere in attesa della vendita.
Un altro prodotto
di vitale importanza per la vita della famiglia contadina era il grano. Si
cominciava verso la metà di settembre con la concimazione dei campi. Per giorni
i contadini, a piedi nudi si piazzavano sulla letamaia e con i forcali
sollevavano il letame, lo mettevano sul carro, lo trasportavano sul campo e poi
lo spargevano sul terreno. I liquami venivano tirati su dai pozzi neri con i
secchi o, in tempi più recenti, con le pompe a mano, e portati sui campi con le
botti..
Verso la fine di
settembre cominciava l’aratura con un aratro trainato da una o due paia di
mucche o dai buoi. Era un lavoro faticoso che andava fatto prima dell’alba, per
usufruire del fresco ed anche per evitare , per quanto possibile i tafani, che
mordevano a sangue bestie ed uomini. Di solito per evitare che le bestie si
imbizzarrissero due bambini stavano di fianco ai buoi con delle frasche per
tenere lontani gli insetti. I pezzi di terra fra gli olmi dove non arrivava
l’aratro venivano vangati a mano. Dopo l’aratura, quando la terra si era un po’
dissodata, cominciava la zappatura. Tutti i membri della famiglia in età da
lavoro, dai dieci anni in su, si disponevano in fila, parallelamente alla
carreggiata e cominciavano a zappare. Sembrava un plotone militare in parata e
si smetteva solo quando il plotone arrivava alla carreggiata successiva. Infine
con l’erpice, trainato da un animale si passava allo sminuzzamento ed al
livellamento del terreno per predisporlo alla semina, che doveva avvenire
necessariamente prima delle prime piogge autunnali. La semina un tempo veniva
fatta a mano, poi comparvero le prime macchine e si passò alla semina meccanica
con l’ausilio degli animali.
La raccolta del
grano veniva fatta verso la fine di giugno ed era un lavoro molto faticoso ed
ingrato. Faticoso perché si doveva tagliare il grano raso terra con un falcetto
piegati in avanti, in una posizione molto faticosa per la schiena. Ingrato
perché malgrado il sole cocente si doveva stare coperti per limitare al massimo
il contatto con la polvere del grano che dava un prurito fastidiosissimo. Il
grano falciato veniva posato in terra con cura a manipoli e poi ammucchiato in piccoli covoni che venivano legati e portati nell’aia
in attesa della trebbiatrice. Il grano veniva raccolto in sacchi da un
quintale, sia per la misura del raccolto che per pagare la trebbiatura e per la
divisione col proprietario del fondo. Ma non andava perduta neppure la paglia
che usciva dalla trebbiatrice legata a balle, che poi veniva usata per la
lettiera delle mucche e che abbiamo ritrovato prima nel letame delle concimaie.
Anche le parti più frantumate degli steli o dell’involucro che avvolgeva i
chicchi venivano usate. Era il così detto “loc”, che veniva accatastato vicino
alla stalla. Usato per tenere asciutte le stalle finiva anche’esso nella
letamaia e poi a fare da concime nei campi.
L’inverno era il
periodo più tranquillo. Rimanevano i lavori nella stalla, con i parti delle
mucche e la cura dei vitelli, la sistemazione degli attrezzi vecchi e la
costruzione di quelli nuovi.
Ho voluto raccontare
la vita dei contadini di una volta, per onorare la loro memoria ed anche per me
stesso per rivivere una parte della mia vita passata.
Leone Sacchi Bologna
24-05-2012
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