giovedì 9 gennaio 2014

LA STORIA DELLA MIA VITA DI LAVORO E DELLA MIA LONGEVITA’


Mi accingo a scrivere la storia del mio lavoro, che ho svolto nel caseificio dove sono nato, cresciuto e poi anche sposato.  Incomincio dal periodo in cui io ero ancora bambino. Nel caseificio “Latteria Sociale di Migliarina”, dove mio padre lavorava come casaro,  c’erano le porcilaie nelle quali venivano allevati circa 150 maiali. Questi maiali, che venivano portati fino all’ingrasso, servivano per consumare lo siero prodotto nella lavorazione del formaggio Parmigiano Reggiano. Ho iniziato parlando dell’allevamento dei maiali perché il primo lavoro all’alba era proprio quello di dare loro da mangiare. Per prima cosa si doveva entrare nei vari porcili, contenenti ognuno una quindicina di maiali, per pulire le mangiatoie dalle deiezioni degli animali. L’acqua per l’alimentazione dei maiali e per i vari bisogni veniva estratta da un pozzo, che distava una ventina di metri dal caseificio, con un secchio da 10-12 litri, appeso ad una catena di ferro mediante una carrucola. L’acqua estratta veniva versata in un mastello a due manici, che poteva contenere circa un quintale d’acqua, trasportata nel caseificio da due operai, versata in un paiolo e quindi riscaldata. Il riscaldamento veniva fatto a legna, con delle fascine di stecchi, ricavati dalla potatura degli alberi. Nell’acqua calda veniva versata farina gialla e crusca fino a formare una miscela liquida. A questo punto il mastello veniva riportato, sempre a mano, nelle porcilaie e poi versato nelle mangiatoie, badando di tenere mescolato il tutto per evitare che la parte solida della miscela si depositasse sul fondo del barile. Nel periodo estivo l’acqua era sostituita in tutto o in parte dal siero che rimaneva come residuo liquido dopo la produzione del formaggio. La produzione del formaggio, nei tempi di allora, cominciava ai primi di Aprile e terminava verso la metà di novembre. Nel periodo invernale  occorreva circa una decina di quintali d’acqua. L’inverno allora era molto lungo: incominciava a cadere la neve ai primi di Dicembre e terminava di sciogliersi verso la metà di Marzo. A dirlo adesso, con tutte le comodità che ci sono, sembra una cosa da poco. Ma allora non era affatto così. Molte volte quando ti alzavi c’era subito da spalare la neve per arrivare al pozzo. La catena era gelata e le mani, senza guanti, si appiccicavano alla catena e gelavano. I maiali venivano alimentati tre volte al giorno e con le braccia nude immerse nel mastello si doveva mescolare la miscela  per evitare che ad alcuni arrivasse solo acqua e ad altri solo farina e le porcilaie erano in parte coperte ed in parte scoperte e quindi esposte alle intemperie ed al freddo. 
Intorno al 1920  venne sostituita  nel pozzo la catena di ferro con una  grossa corda di canapa molto più flessibile e più calda. Nel 1925 venne installata una pompa a mano all’interno del caseificio e sembrò allora una cosa meravigliosa.
Un lavoro veramente bestiale consisteva nel caricare i maiali per il trasporto al macello. I birocciai arrivavano intorno alle due di notte per poter effettuare il trasporto durante le ore più fresche ed evitare che i maiali si accaldassero e morissero durante il trasporto. A quei tempi i maiali venivano ingrassati fino a 180 ed anche addirittura fino a 200 chilogrammi e veniva dato loro da mangiare anche immediatamente prima del trasporto per fare più peso, visto che venivano pesati e quindi anche pagati in base al peso da vivi. In questo modo a quei tempi, di fatto, veniva consumata una grande quantità di mangime. I birocci, trainati dai cavalli, erano alti circa un metro da terra e quindi bisognava  prendere i maiali nelle porcilaie, sollevarli da terra e portarli di peso sui birocci. Ci volevano quattro persone per prendere e sollevare un maiale. Due lo prendevano infilando le braccia sotto alla pancia vicino alle gambe anteriori con le mani a catena e gli altri due facevano la stessa operazione vicino a quelle posteriori. Tutta l’operazione era resa faticosissima anche perchè il maiale si divincolava, mollava calci con le gambe, agitava la testa ed emetteva dei grugniti spaventosi. Essendo poi pieni di cibo per il pasto abbondante appena consumato emettevano escrementi e pipì che schizzavano da tutte le parti. Nella confusione che si creava nel porcile durante questa operazione, i maiali non tentavano di aggredire gli uomini, ma si addossavano gli uni agli altri rendendo quanto mai problematico il compito di separare dal gruppo l’animale che ci si accingeva a caricare.
In queste condizioni, quando avevi finito di caricare 15 o 20 maiali, oltre ad essere stanco morto eri anche completamente coperto di deiezioni puzzolenti. Nelle case allora non c’erano le docce e neppure l’acqua calda. Ci si poteva solo lavare alla benemeglio per poi  indossare dei panni asciutti e puliti. Poi, siccome nel frattempo aveva cominciato a fare giorno, si ricominciava con i lavori quotidiani, per dare da mangiare agli altri animali prima dell’arrivo dei contadini che venivano a conferire il latte. Nel porcile rimasto vuoto venivano messi dei maialini giovani appena divezzati, detti lattonzoli. Quando ero ancora ragazzino il mio compito era quello di fare la guardia ai lattonzoli perchè non si morsicassero essendo figli di scrofe diverse. Mio padre mi metteva dentro al porcile con un bastoncino in mano col compito di dare un colpetto sul muso agli aggressori, per impedire che si morsicassero a morte. Il servizio di vigilanza poteva durare anche alcuni giorni prima che i lattonzoli perdessero l’odore distintivo delle covate d’origine e si instaurasse la pace.
Intanto col trascorrere degli anni, un po’ alla volta, vennero introdotte delle innovazioni per rendere il lavoro meno faticoso. I mastelli manuali vennero inseriti su supporti a due ruote muniti di stanghe che ne permettevano il sollevamento ed il trasporto. Si trattava sempre di un lavoro pesante, ma meno faticoso di prima, che poteva ormai essere svolto da una sola persona. Un altro lavoro molto faticoso era lo scarico delle farine per l’alimentazione dei maiali. La farina veniva consegnata con dei birocci trainati da cavalli entro sacchi da un quintale ciascuno. Io allora, già adulto, me li caricavo sul groppone e li portavo nel deposito dei mangimi. In certi caseifici tale deposito non si trovava neppure a piano terra ed era necessario portarli sulle spalle lungo le scale. Io ora, alle soglie dei 94 anni, ormai faccio fatica a sollevare dieci chili e mi domando come facevo io, già di costituzione minuta, a trasportare tanti quintali sulle spalle.
Ma veniamo al lavoro che si svolgeva nel caseificio per la produzione del formaggio grana.

IL LAVORO NEL CASEIFICIO
La produzione del formaggio grana parmigiano-reggiano ebbe inizio circa 700 anni fa per merito dei frati francescani. Le procedure che io mi accingo a raccontare sono invece relative al lavoro che si svolgeva grosso modo fra il 1890 ed il 1940-45, cioè da quando cominciò a lavorare mio padre prima e poi quando divenimmo  casari io ed i miei fratelli.
Il latte per la lavorazione del formaggio veniva raccolto due volte al giorno: alla sera ed al mattino. Lo portavano al caseificio i contadini con una pertica sulle spalle lunga circa un metro con due incavi ai margini per evitare che i secchi pieni di latte scivolassero giù. (Noi la pertica in dialetto la chiamavamo << Basel>>). Ai tempi di mio padre i caseifici erano tutti privati. Non c’erano le bilance ed il latte veniva versato dentro una secchia di legno e misurata con un’asta graduata. Per consuetudine con l’asta si poneva in rotazione il latte e poi la misura veniva effettuata al centro, dove il livello era più basso. In questo modo ovviamente si rubava sistematicamente sul peso a danno dei contadini. Solo ai primi del novecento sorsero le prime cooperative e si dotarono di bilance che segnavano fino all’etto con una portata fino a 25 chili. La bilancia era verticale, appesa con un gancio ad un apposito traliccio. Il latte veniva versato nella secchia adibita alla pesa e poi portato nelle vasche che distavano vari metri ed erano collocate in un locale ben areato, detto “camera del latte”. Mi sono dilungato in questa descrizione per dimostrare che anche questo era un lavoro faticoso. Ai tempi di mio padre il latte, ritirato la sera, veniva collocato e conservato per la notte in mastelli di legno della capienza di 10-12 litri ciascuno. Il lavoro della loro pulizia era molto laborioso e faticoso. Tutte le mattine bisognava lavare i mastelli dentro al siero bollente per liberarli dal grasso che si era depositato sul legno e dentro ai pori. Successivamente vennero introdotte le vasche di lamiera zincata che contenevano un paio di quintali di latte, erano più servizievoli, facili da pulire ed igieniche. Ma la loro introduzione rese necessario l’uso del siero innesto per combattere le fermentazioni che altrimenti avrebbero prodotto il gonfiore del formaggio. Prima questa fermentazione veniva bloccata dall’acidità che il legno del mastello trasmetteva al latte durante la notte.
Durante la notte, sul latte depositato nelle vasche, si condensava uno strato di panna che doveva essere tolto per la buona riuscita del formaggio (nella percentuale di 2,5 chilogrammi per quintale di latte). La parte di latte restante veniva raccolta in mastelli da 50 litri e portata nelle caldaie che distavano una decina di metri  ed erano poste in un locale apposito, detto appunto “caseificio”. Il latte raccolto al mattino invece veniva portato direttamente in caldaia, sempre a forza di braccia, senza operazioni di spannatura.  Le fornaci sulle quali si trovavano le caldaie erano a forma di ferro di cavallo. Le caldaie erano appese ad un’asta di ferro girevole per poter allontanare la caldaia dal fuoco, a cottura avvenuta. Le fascine, utilizzate per la cottura del formaggio, venivano ricavate dalla potatura degli olmi che servivano per sostenere  le viti lungo i filari. In primavera i contadini portavano tutte le loro fascine al caseificio che venivano accatastate in grandi piloni di vari metri di altezza. All’inizio per il loro prelievo per il consumo giornaliero era necessario fare ricorso a lunghe scale. Queste fascine di norma bruciavano bene, ma quando erano bagnate di pioggia facevano anche molto fumo. Il latte nelle caldaie veniva prima riscaldato fino a 25-26 gradi Reamur, corrispondente a circa 32-33 gradi centigradi. A quella temperatura si immetteva nel latte il caglio per il coagulo e si  toglieva la caldaia dal fuoco per far sì che la temperatura rimanesse costante. Per il coagulo del latte occorrevano circa 10-12 minuti poi si riportava la caldaia sul fuoco e si procedeva alla cottura finale del formaggio con un colpo di fuoco molto intenso. Talmente intenso da far sì che le fiamme e le faville raggiungevano il tetto del caseificio. Nel 1942, nel caseificio Crotti di Cibeno in cui lavoravo come casaro crollò il tetto a causa di un incendio. Evidentemente una scintilla si era depositata su un trave già secco e riarso e lentamente aveva continuato a bruciare per tutto il giorno.
Ma riprendiamo il filo del racconto. Alla temperatura di circa 45 gradi Reamur la cottura è finita, ma la temperatura deve rimanere costante per qualche tempo e perciò si procede allo spegnimento del fuoco buttandovi sopra un mastello d’acqua di circa trenta litri. Immediatamente dopo, il più rapidamente possibile si procedeva alla raccolta delle braci rimaste, che venivano poste in un apposito contenitore. La fuliggine, la cenere incandescente ed il fumo che ti offuscava la vista  erano indescrivibili. Penso che, a confronto, l’inferno di Dante fosse un paradiso. Per cuocere due caldaie occorrevano circa due ore. Quando alla fine uscivi all’aria pura sembrava di rivivere. Dopo qualche tempo il cappello che per forza dovevi tenere in testa era tutto bucherellato; sembrava uno scolapasta. Stessa sorte toccava alla camicia. Per parecchie ore quando ti soffiavi il naso usciva della fuliggine. Anche la parte esterna della forma di formaggio era del colore della cenere, che però restava solo in superficie. La forma di formaggio, che si formava in fondo alla caldaia, veniva portata a galla con una pala. Non sembrava molto pesante; in mezzo allo siero quasi galleggiava. Veniva raccolta dentro ad un telo di canapa e lasciata per qualche tempo dentro allo siero. Se la caldaia era piena con dieci quintali di latte il formaggio depositato si tagliava in due parti dentro al telo per formare due forme di formaggio che, a stagionatura avvenuta, sarebbero diventate di 34-35 chilogrammi. Però prelevarle ancora piene di siero dalla caldaia, metterle dentro al mastello, portarle sul banco dentro alle fascere a più di un metro di altezza era abbastanza faticoso. Nel corso della giornata venivano voltate parecchie volte con un telo di spurgo. Due giorni dopo venivano portate nel salatoio ed immerse nella salamoia. A salatura ultimata le forme venivano  poste al sole su un’ascia per lo spurgo del grasso indispensabile per il processo di stagionatura. Terminate tutte queste operazioni abbastanza faticose e pesanti le forme venivano portate e riposte nel magazzino di stagionatura.
 Con la panna prelevata tutti i giorni dal latte della sera si procedeva poi alla produzione del burro. Ai tempi di mio padre, quando non c’era l’energia elettrica e non si produceva il ghiaccio artificialmente si ricorreva al ghiaccio delle ghiacciaie che erano poste in gran parte vicino alle ville dei signorotti. Si trattava di costruzioni interrate, sormontate da enormi cupole, entro le quali venivano stipate centinaia di quintali di neve, durante il periodo invernale. Il ghiaccio veniva usato durante tutto l’anno per gli usi più svariati. Le cupole erano coperte da metri di terra sui quali venivano fatte crescere piante ad  alto fusto. E, a proposito di fatiche, quante carriole di terra saranno servite per coprire quelle enormi cupole?  Il ghiaccio che occorreva per fare il burro veniva preso dalla ghiacciaia a colpi di piccone perché durante l’inverno la neve si era trasformata in un enorme blocco di ghiaccio. La zangola per fare il burro era di legno, con una capienza di circa due quintali. Vi venivano  versati non più di 70-80 chili di panna perchè la zangola ruotando doveva permetterne lo sbattimento per la burrificazione. La zangola aveva due maniglioni per farla roteare a sbattola a forza di braccia con una fatica enorme. Mi raccontava mio padre che durante questo  lavoro   i pantaloni gocciolavano come se piovesse. Finalmente con l’arrivo dell’energia  elettrica, intorno al 1925 venne installato un motore elettrico che pose fine a questo lavoro manuale tanto pesante e faticoso.
Il sistema di lavorazione del formaggio parmigiano reggiano non è cambiato dai tempi di allora. Sono mutate le tecnologie. Moderni impianti a vapore hanno sostituito la cottura del formaggio. Nei magazzini di stagionatura impianti elettrici con ascensore girano per il magazzino e puliscono le forme. E così tante altre tecnologie hanno sostituito il lavoro manuale sia nei caseifici che nelle porcilaie.

IL MAGAZZINO PER LA STAGIONATURA DEL FORMAGGIO
Una volta il magazzino di stagionatura era annesso al caseificio e poteva contenere fino a 1000 forme di formaggio. Nel corso del lavoro giornaliero bisognava trovare un intervallo di qualche ora per la pulizia delle forme esistenti nel magazzino. Il banco per la pulizia del formaggio era a due piani per un’altezza di circa 4 metri. Quelle forme che si trovavano all’altezza del banco non erano faticose da prelevare, pulire con la spazzola e riporre nella scaffalatura. Mano a mano che le forme da prelevare salivano in alto la fatica e lo sforzo delle braccia per riporle al loro posto diventava enorme. Se si pensa al loro peso di 34-35 chilogrammi ognuna, pulendone una quarantina al giorno si arrivava a spostare un peso complessivo pari a 12 quintali in aggiunta a tutto il lavoro che avevi già fatto. A distanza di tanti anni tutto quel lavoro  mi sembra una cosa incredibile, ma nei momenti di allora era una cosa normale che, come altri casari, ho vissuto sulla mia pelle. Nonostante la mia figura minuscola avevo messo assieme dei muscoli come quelli di un pugile. Eppure, nonostante le grandi fatiche provo ancora tanta nostalgia per il mio lavoro e lo rifarei ancora. Quando entravo nel magazzino pieno di formaggio lo guardavo ammirato come può fare uno scultore davanti alle sue opere. Sogno ancora la notte che sto dando da mangiare ai maiali  o sto cuocendo il formaggio, poi quando mi sveglio capisco che sono solo ricordi di un passato che non ritorna più.
Ho smesso il mio lavoro di casaro il 25 marzo del 1965. ci siamo trasferiti con la famiglia a Bologna con i figli insegnanti e vi abitiamo tuttora.
Dopo un periodo di lavoretti alterni nell’ottobre del 1968 il caseificio Samoggia di Anzola dell’Emilia  aprì un negozio a Bologna in via Bellaria per la vendita diretta dei suoi prodotti ed io e mia moglie fummo assunti come commessi. Dopo cinque anni di lavoro, per dissensi sorti all’interno del consiglio di gestione del caseificio, il negozio venne chiuso. Io avevo già raggiunto l’età pensionabile e sono andato in pensione, mentre a mia moglie è stata riconosciuta l’invalidità.
Nel corso della mia vita ho svolto anche attività politica. Sono stato partigiano a fianco di tanti altri compagni di lotta per liberare l’Italia dai nazifascisti dal 1940 al 1945. Ho scritto le mie memorie “RICORDARE PER VIVERE”, dalla fine della guerra 15-18 fino alla fine della seconda guerra mondiale, pubblicate dalla rivista “I  QUADERNI MODENESI” . Ho scritto anche la “STORIA ANTICA E MODERNA DEL PARMIGIANO REGGIANO” pubblicato dall’ARCI Benassi di Bologna con la partecipazione del Quartiere Savena di Bologna e tanti articoli, pubblicati su riviste, giornali locali e nazionali sulle vicende storiche degli ultimi cent’anni della vita sociale e politica del nostro paese.
Sono stato consigliere comunale della Liberazione a Carpi e segretario di una sezione del P.C.I. in una frazione dello stesso comune. A Bologna per molti anni ho fatto volontariato nelle scuole elementari e medie. Ho tenuto delle lezioni sulla storia del formaggio grana ed accompagnato varie scolaresche a vedere dal vivo la lavorazione nel caseificio Samoggia.
Oggi, alla soglia dei 94 anni scrivo ancora quando trovo delle posizioni che non condivido o sento delle versioni non veritiere su fatti lontani e recenti della nostra storia..

LA STORIA DELLA MIA LONGEVITA’

La mia storia dimostra che non è il lavoro molto pesante a ridurre o stroncare la vita dell’uomo. Per moltissimi anni ho mangiato di tutto. Ero ghiotto di budino e di patate arrosto, di polenta fritta, di dolci di tutte le qualità, compreso il gelato, di umidi, di uova al tegame, senza rendermi conto del pericolo che potevano rappresentare per la mia salute. I disturbi che queste sregolatezze mi procuravano erano sopportabili di giorno, ma diventavano insopportabili durante la notte. La parte sinistra del mio corpo aveva una temperatura normale, mentre la temperatura della parte destra mi costringeva ad immergere la gamba nell’acqua fredda fino al ginocchio per trovare refrigerio. D’inverno, quando nelle camere la temperatura scendeva sotto zero e l’urina gelava nei vasi da notte, spesso io dormivo con la parte destra del corpo completamente scoperta. Quando ne parlavo coi medici ridevano senza darmi nessuna spiegazione in merito. Solo una dottoressa, esaminando casualmente alcuni documenti cardiologici mi ha dato una spiegazione che può essere plausibile. Dalle analisi risulta che io sono portatore di una malformazione al cuore, che sotto lo sforzo della digestione, fa affluire più sangue sulla parte destra del corpo.
Finalmente pian piano ho capito che l’origine dei miei disturbi risiedeva nell’ alimentazione ed ho cominciato ad eliminare alcuni alimenti dalla mia dieta ed ho finalmente trovato un equilibrio fisico normale. Così ho smesso il caffè che mi produceva insonnia. Non voglio parlare della mia alimentazione attuale perchè penso che questa vada calibrata sul fisico di ciascuno di noi e quindi credo che non esistano diete valide per tutti. Penso però che quando una persona va in pensione se mantiene l’alimentazione che teneva nel pieno della sua attività lavorativa, magari per mantenere in pieno i rapporti sessuali e la sua vigoria fisica, corra dei forti rischi per la sua salute. E’ un po’ come quello che succede con un motore: se non rallenta a un certo punto qualche pezzo cede. In conclusione io penso che se durante la sua esistenza l’uomo sa regolare la sua vita alimentare può, in linea di massima, raggiungere un’età molto più elevata rispetto alle generazioni passate. A meno che non intervengano delle malattie tuttora incurabili.
Concludo dicendo che la vita è un dono meraviglioso, specialmente quando si ha la fortuna di viverla nella pace, nel lavoro e nella libertà.
  
Leone Sacchi
Bologna 4/9/2006


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