Mi accingo a scrivere la storia del mio lavoro, che ho
svolto nel caseificio dove sono nato, cresciuto e poi anche sposato. Incomincio dal periodo in cui io ero ancora
bambino. Nel caseificio “Latteria Sociale di Migliarina”, dove mio padre
lavorava come casaro, c’erano le
porcilaie nelle quali venivano allevati circa 150 maiali. Questi maiali, che
venivano portati fino all’ingrasso, servivano per consumare lo siero prodotto
nella lavorazione del formaggio Parmigiano Reggiano. Ho iniziato parlando
dell’allevamento dei maiali perché il primo lavoro all’alba era proprio quello
di dare loro da mangiare. Per prima cosa si doveva entrare nei vari porcili,
contenenti ognuno una quindicina di maiali, per pulire le mangiatoie dalle
deiezioni degli animali. L’acqua per l’alimentazione dei maiali e per i vari
bisogni veniva estratta da un pozzo, che distava una ventina di metri dal
caseificio, con un secchio da 10-12 litri, appeso ad una catena di ferro mediante
una carrucola. L’acqua estratta veniva versata in un mastello a due manici, che
poteva contenere circa un quintale d’acqua, trasportata nel caseificio da due
operai, versata in un paiolo e quindi riscaldata. Il riscaldamento veniva fatto
a legna, con delle fascine di stecchi, ricavati dalla potatura degli alberi.
Nell’acqua calda veniva versata farina gialla e crusca fino a formare una
miscela liquida. A questo punto il mastello veniva riportato, sempre a mano,
nelle porcilaie e poi versato nelle mangiatoie, badando di tenere mescolato il
tutto per evitare che la parte solida della miscela si depositasse sul fondo
del barile. Nel periodo estivo l’acqua era sostituita in tutto o in parte dal
siero che rimaneva come residuo liquido dopo la produzione del formaggio. La
produzione del formaggio, nei tempi di allora, cominciava ai primi di Aprile e
terminava verso la metà di novembre. Nel periodo invernale occorreva circa una decina di quintali
d’acqua. L’inverno allora era molto lungo: incominciava a cadere la neve ai
primi di Dicembre e terminava di sciogliersi verso la metà di Marzo. A dirlo
adesso, con tutte le comodità che ci sono, sembra una cosa da poco. Ma allora
non era affatto così. Molte volte quando ti alzavi c’era subito da spalare la
neve per arrivare al pozzo. La catena era gelata e le mani, senza guanti, si
appiccicavano alla catena e gelavano. I maiali venivano alimentati tre volte al
giorno e con le braccia nude immerse nel mastello si doveva mescolare la
miscela per evitare che ad alcuni
arrivasse solo acqua e ad altri solo farina e le porcilaie erano in parte
coperte ed in parte scoperte e quindi esposte alle intemperie ed al
freddo.
Intorno al 1920 venne
sostituita nel pozzo la catena di ferro
con una grossa corda di canapa molto più
flessibile e più calda. Nel 1925 venne installata una pompa a mano all’interno
del caseificio e sembrò allora una cosa meravigliosa.
Un lavoro veramente bestiale consisteva nel caricare i
maiali per il trasporto al macello. I birocciai arrivavano intorno alle due di
notte per poter effettuare il trasporto durante le ore più fresche ed evitare
che i maiali si accaldassero e morissero durante il trasporto. A quei tempi i
maiali venivano ingrassati fino a 180 ed anche addirittura fino a 200
chilogrammi e veniva dato loro da mangiare anche immediatamente prima del
trasporto per fare più peso, visto che venivano pesati e quindi anche pagati in
base al peso da vivi. In questo modo a quei tempi, di fatto, veniva consumata
una grande quantità di mangime. I birocci, trainati dai cavalli, erano alti
circa un metro da terra e quindi bisognava
prendere i maiali nelle porcilaie, sollevarli da terra e portarli di
peso sui birocci. Ci volevano quattro persone per prendere e sollevare un
maiale. Due lo prendevano infilando le braccia sotto alla pancia vicino alle
gambe anteriori con le mani a catena e gli altri due facevano la stessa
operazione vicino a quelle posteriori. Tutta l’operazione era resa
faticosissima anche perchè il maiale si divincolava, mollava calci con le
gambe, agitava la testa ed emetteva dei grugniti spaventosi. Essendo poi pieni
di cibo per il pasto abbondante appena consumato emettevano escrementi e pipì
che schizzavano da tutte le parti. Nella confusione che si creava nel porcile
durante questa operazione, i maiali non tentavano di aggredire gli uomini, ma
si addossavano gli uni agli altri rendendo quanto mai problematico il compito
di separare dal gruppo l’animale che ci si accingeva a caricare.
In queste condizioni, quando avevi finito di caricare 15 o
20 maiali, oltre ad essere stanco morto eri anche completamente coperto di
deiezioni puzzolenti. Nelle case allora non c’erano le docce e neppure l’acqua
calda. Ci si poteva solo lavare alla benemeglio per poi indossare dei panni asciutti e puliti. Poi,
siccome nel frattempo aveva cominciato a fare giorno, si ricominciava con i
lavori quotidiani, per dare da mangiare agli altri animali prima dell’arrivo
dei contadini che venivano a conferire il latte. Nel porcile rimasto vuoto
venivano messi dei maialini giovani appena divezzati, detti lattonzoli. Quando
ero ancora ragazzino il mio compito era quello di fare la guardia ai lattonzoli
perchè non si morsicassero essendo figli di scrofe diverse. Mio padre mi
metteva dentro al porcile con un bastoncino in mano col compito di dare un
colpetto sul muso agli aggressori, per impedire che si morsicassero a morte. Il
servizio di vigilanza poteva durare anche alcuni giorni prima che i lattonzoli
perdessero l’odore distintivo delle covate d’origine e si instaurasse la pace.
Intanto col trascorrere degli anni, un po’ alla volta,
vennero introdotte delle innovazioni per rendere il lavoro meno faticoso. I
mastelli manuali vennero inseriti su supporti a due ruote muniti di stanghe che
ne permettevano il sollevamento ed il trasporto. Si trattava sempre di un
lavoro pesante, ma meno faticoso di prima, che poteva ormai essere svolto da
una sola persona. Un altro lavoro molto faticoso era lo scarico delle farine per
l’alimentazione dei maiali. La farina veniva consegnata con dei birocci
trainati da cavalli entro sacchi da un quintale ciascuno. Io allora, già
adulto, me li caricavo sul groppone e li portavo nel deposito dei mangimi. In
certi caseifici tale deposito non si trovava neppure a piano terra ed era
necessario portarli sulle spalle lungo le scale. Io ora, alle soglie dei 94
anni, ormai faccio fatica a sollevare dieci chili e mi domando come facevo io,
già di costituzione minuta, a trasportare tanti quintali sulle spalle.
Ma veniamo al lavoro che si svolgeva nel caseificio per la
produzione del formaggio grana.
IL LAVORO NEL CASEIFICIO
La produzione del formaggio grana parmigiano-reggiano ebbe
inizio circa 700 anni fa per merito dei frati francescani. Le procedure che io
mi accingo a raccontare sono invece relative al lavoro che si svolgeva grosso
modo fra il 1890 ed il 1940-45, cioè da quando cominciò a lavorare mio padre
prima e poi quando divenimmo casari io
ed i miei fratelli.
Il latte per la lavorazione del formaggio veniva raccolto
due volte al giorno: alla sera ed al mattino. Lo portavano al caseificio i
contadini con una pertica sulle spalle lunga circa un metro con due incavi ai
margini per evitare che i secchi pieni di latte scivolassero giù. (Noi la
pertica in dialetto la chiamavamo << Basel>>). Ai tempi di mio
padre i caseifici erano tutti privati. Non c’erano le bilance ed il latte
veniva versato dentro una secchia di legno e misurata con un’asta graduata. Per
consuetudine con l’asta si poneva in rotazione il latte e poi la misura veniva
effettuata al centro, dove il livello era più basso. In questo modo ovviamente
si rubava sistematicamente sul peso a danno dei contadini. Solo ai primi del
novecento sorsero le prime cooperative e si dotarono di bilance che segnavano
fino all’etto con una portata fino a 25 chili. La bilancia era verticale,
appesa con un gancio ad un apposito traliccio. Il latte veniva versato nella
secchia adibita alla pesa e poi portato nelle vasche che distavano vari metri
ed erano collocate in un locale ben areato, detto “camera del latte”. Mi sono
dilungato in questa descrizione per dimostrare che anche questo era un lavoro
faticoso. Ai tempi di mio padre il latte, ritirato la sera, veniva collocato e
conservato per la notte in mastelli di legno della capienza di 10-12 litri
ciascuno. Il lavoro della loro pulizia era molto laborioso e faticoso. Tutte le
mattine bisognava lavare i mastelli dentro al siero bollente per liberarli dal
grasso che si era depositato sul legno e dentro ai pori. Successivamente
vennero introdotte le vasche di lamiera zincata che contenevano un paio di
quintali di latte, erano più servizievoli, facili da pulire ed igieniche. Ma la
loro introduzione rese necessario l’uso del siero innesto per combattere le
fermentazioni che altrimenti avrebbero prodotto il gonfiore del formaggio.
Prima questa fermentazione veniva bloccata dall’acidità che il legno del
mastello trasmetteva al latte durante la notte.
Durante la notte, sul latte depositato nelle vasche, si
condensava uno strato di panna che doveva essere tolto per la buona riuscita
del formaggio (nella percentuale di 2,5 chilogrammi per quintale di latte). La
parte di latte restante veniva raccolta in mastelli da 50 litri e portata nelle
caldaie che distavano una decina di metri ed erano poste in un locale apposito, detto appunto
“caseificio”. Il latte raccolto al mattino invece veniva portato direttamente
in caldaia, sempre a forza di braccia, senza operazioni di spannatura. Le fornaci sulle quali si trovavano le caldaie
erano a forma di ferro di cavallo. Le caldaie erano appese ad un’asta di ferro
girevole per poter allontanare la caldaia dal fuoco, a cottura avvenuta. Le
fascine, utilizzate per la cottura del formaggio, venivano ricavate dalla
potatura degli olmi che servivano per sostenere
le viti lungo i filari. In primavera i contadini portavano tutte le loro
fascine al caseificio che venivano accatastate in grandi piloni di vari metri
di altezza. All’inizio per il loro prelievo per il consumo giornaliero era
necessario fare ricorso a lunghe scale. Queste fascine di norma bruciavano
bene, ma quando erano bagnate di pioggia facevano anche molto fumo. Il latte
nelle caldaie veniva prima riscaldato fino a 25-26 gradi Reamur, corrispondente
a circa 32-33 gradi centigradi. A quella temperatura si immetteva nel latte il
caglio per il coagulo e si toglieva la
caldaia dal fuoco per far sì che la temperatura rimanesse costante. Per il
coagulo del latte occorrevano circa 10-12 minuti poi si riportava la caldaia
sul fuoco e si procedeva alla cottura finale del formaggio con un colpo di
fuoco molto intenso. Talmente intenso da far sì che le fiamme e le faville
raggiungevano il tetto del caseificio. Nel 1942, nel caseificio Crotti di
Cibeno in cui lavoravo come casaro crollò il tetto a causa di un incendio.
Evidentemente una scintilla si era depositata su un trave già secco e riarso e
lentamente aveva continuato a bruciare per tutto il giorno.
Ma riprendiamo il filo del racconto. Alla temperatura di
circa 45 gradi Reamur la cottura è finita, ma la temperatura deve rimanere
costante per qualche tempo e perciò si procede allo spegnimento del fuoco
buttandovi sopra un mastello d’acqua di circa trenta litri. Immediatamente
dopo, il più rapidamente possibile si procedeva alla raccolta delle braci
rimaste, che venivano poste in un apposito contenitore. La fuliggine, la cenere
incandescente ed il fumo che ti offuscava la vista erano indescrivibili. Penso che, a confronto,
l’inferno di Dante fosse un paradiso. Per cuocere due caldaie occorrevano circa
due ore. Quando alla fine uscivi all’aria pura sembrava di rivivere. Dopo
qualche tempo il cappello che per forza dovevi tenere in testa era tutto
bucherellato; sembrava uno scolapasta. Stessa sorte toccava alla camicia. Per
parecchie ore quando ti soffiavi il naso usciva della fuliggine. Anche la parte
esterna della forma di formaggio era del colore della cenere, che però restava
solo in superficie. La forma di formaggio, che si formava in fondo alla
caldaia, veniva portata a galla con una pala. Non sembrava molto pesante; in
mezzo allo siero quasi galleggiava. Veniva raccolta dentro ad un telo di canapa
e lasciata per qualche tempo dentro allo siero. Se la caldaia era piena con
dieci quintali di latte il formaggio depositato si tagliava in due parti dentro
al telo per formare due forme di formaggio che, a stagionatura avvenuta,
sarebbero diventate di 34-35 chilogrammi. Però prelevarle ancora piene di siero
dalla caldaia, metterle dentro al mastello, portarle sul banco dentro alle
fascere a più di un metro di altezza era abbastanza faticoso. Nel corso della
giornata venivano voltate parecchie volte con un telo di spurgo. Due giorni
dopo venivano portate nel salatoio ed immerse nella salamoia. A salatura
ultimata le forme venivano poste al sole
su un’ascia per lo spurgo del grasso indispensabile per il processo di
stagionatura. Terminate tutte queste operazioni abbastanza faticose e pesanti
le forme venivano portate e riposte nel magazzino di stagionatura.
Con la panna
prelevata tutti i giorni dal latte della sera si procedeva poi alla produzione
del burro. Ai tempi di mio padre, quando non c’era l’energia elettrica e non si
produceva il ghiaccio artificialmente si ricorreva al ghiaccio delle ghiacciaie
che erano poste in gran parte vicino alle ville dei signorotti. Si trattava di
costruzioni interrate, sormontate da enormi cupole, entro le quali venivano
stipate centinaia di quintali di neve, durante il periodo invernale. Il
ghiaccio veniva usato durante tutto l’anno per gli usi più svariati. Le cupole
erano coperte da metri di terra sui quali venivano fatte crescere piante
ad alto fusto. E, a proposito di
fatiche, quante carriole di terra saranno servite per coprire quelle enormi
cupole? Il ghiaccio che occorreva per
fare il burro veniva preso dalla ghiacciaia a colpi di piccone perché durante
l’inverno la neve si era trasformata in un enorme blocco di ghiaccio. La
zangola per fare il burro era di legno, con una capienza di circa due quintali.
Vi venivano versati non più di 70-80
chili di panna perchè la zangola ruotando doveva permetterne lo sbattimento per
la burrificazione. La zangola aveva due maniglioni per farla roteare a sbattola
a forza di braccia con una fatica enorme. Mi raccontava mio padre che durante
questo lavoro i
pantaloni gocciolavano come se piovesse. Finalmente con l’arrivo dell’energia elettrica, intorno al 1925 venne installato un
motore elettrico che pose fine a questo lavoro manuale tanto pesante e
faticoso.
Il sistema di lavorazione del formaggio parmigiano reggiano
non è cambiato dai tempi di allora. Sono mutate le tecnologie. Moderni impianti
a vapore hanno sostituito la cottura del formaggio. Nei magazzini di
stagionatura impianti elettrici con ascensore girano per il magazzino e
puliscono le forme. E così tante altre tecnologie hanno sostituito il lavoro
manuale sia nei caseifici che nelle porcilaie.
IL MAGAZZINO PER LA STAGIONATURA DEL FORMAGGIO
Una volta il magazzino di stagionatura era annesso al
caseificio e poteva contenere fino a 1000 forme di formaggio. Nel corso del
lavoro giornaliero bisognava trovare un intervallo di qualche ora per la
pulizia delle forme esistenti nel magazzino. Il banco per la pulizia del
formaggio era a due piani per un’altezza di circa 4 metri. Quelle forme che si
trovavano all’altezza del banco non erano faticose da prelevare, pulire con la
spazzola e riporre nella scaffalatura. Mano a mano che le forme da prelevare
salivano in alto la fatica e lo sforzo delle braccia per riporle al loro posto
diventava enorme. Se si pensa al loro peso di 34-35 chilogrammi ognuna,
pulendone una quarantina al giorno si arrivava a spostare un peso complessivo
pari a 12 quintali in aggiunta a tutto il lavoro che avevi già fatto. A
distanza di tanti anni tutto quel lavoro
mi sembra una cosa incredibile, ma nei momenti di allora era una cosa
normale che, come altri casari, ho vissuto sulla mia pelle. Nonostante la mia
figura minuscola avevo messo assieme dei muscoli come quelli di un pugile.
Eppure, nonostante le grandi fatiche provo ancora tanta nostalgia per il mio
lavoro e lo rifarei ancora. Quando entravo nel magazzino pieno di formaggio lo
guardavo ammirato come può fare uno scultore davanti alle sue opere. Sogno
ancora la notte che sto dando da mangiare ai maiali o sto cuocendo il formaggio, poi quando mi
sveglio capisco che sono solo ricordi di un passato che non ritorna più.
Ho smesso il mio lavoro di casaro il 25 marzo del 1965. ci
siamo trasferiti con la famiglia a Bologna con i figli insegnanti e vi abitiamo
tuttora.
Dopo un periodo di lavoretti alterni nell’ottobre del 1968
il caseificio Samoggia di Anzola dell’Emilia
aprì un negozio a Bologna in via Bellaria per la vendita diretta dei
suoi prodotti ed io e mia moglie fummo assunti come commessi. Dopo cinque anni
di lavoro, per dissensi sorti all’interno del consiglio di gestione del
caseificio, il negozio venne chiuso. Io avevo già raggiunto l’età pensionabile
e sono andato in pensione, mentre a mia moglie è stata riconosciuta
l’invalidità.
Nel corso della mia vita ho svolto anche attività politica.
Sono stato partigiano a fianco di tanti altri compagni di lotta per liberare
l’Italia dai nazifascisti dal 1940 al 1945. Ho scritto le mie memorie
“RICORDARE PER VIVERE”, dalla fine della guerra 15-18 fino alla fine della
seconda guerra mondiale, pubblicate dalla rivista “I QUADERNI MODENESI” . Ho scritto anche la
“STORIA ANTICA E MODERNA DEL PARMIGIANO REGGIANO” pubblicato dall’ARCI Benassi
di Bologna con la partecipazione del Quartiere Savena di Bologna e tanti
articoli, pubblicati su riviste, giornali locali e nazionali sulle vicende
storiche degli ultimi cent’anni della vita sociale e politica del nostro paese.
Sono stato consigliere comunale della Liberazione a Carpi e
segretario di una sezione del P.C.I. in una frazione dello stesso comune. A
Bologna per molti anni ho fatto volontariato nelle scuole elementari e medie.
Ho tenuto delle lezioni sulla storia del formaggio grana ed accompagnato varie
scolaresche a vedere dal vivo la lavorazione nel caseificio Samoggia.
Oggi, alla soglia dei 94 anni scrivo ancora quando trovo
delle posizioni che non condivido o sento delle versioni non veritiere su fatti
lontani e recenti della nostra storia..
LA STORIA DELLA MIA LONGEVITA’
La mia storia dimostra che non è il lavoro molto pesante a
ridurre o stroncare la vita dell’uomo. Per moltissimi anni ho mangiato di tutto.
Ero ghiotto di budino e di patate arrosto, di polenta fritta, di dolci di tutte
le qualità, compreso il gelato, di umidi, di uova al tegame, senza rendermi
conto del pericolo che potevano rappresentare per la mia salute. I disturbi che
queste sregolatezze mi procuravano erano sopportabili di giorno, ma diventavano
insopportabili durante la notte. La parte sinistra del mio corpo aveva una
temperatura normale, mentre la temperatura della parte destra mi costringeva ad
immergere la gamba nell’acqua fredda fino al ginocchio per trovare refrigerio.
D’inverno, quando nelle camere la temperatura scendeva sotto zero e l’urina
gelava nei vasi da notte, spesso io dormivo con la parte destra del corpo
completamente scoperta. Quando ne parlavo coi medici ridevano senza darmi
nessuna spiegazione in merito. Solo una dottoressa, esaminando casualmente
alcuni documenti cardiologici mi ha dato una spiegazione che può essere
plausibile. Dalle analisi risulta che io sono portatore di una malformazione al
cuore, che sotto lo sforzo della digestione, fa affluire più sangue sulla parte
destra del corpo.
Finalmente pian piano ho capito che l’origine dei miei
disturbi risiedeva nell’ alimentazione ed ho cominciato ad eliminare alcuni
alimenti dalla mia dieta ed ho finalmente trovato un equilibrio fisico normale.
Così ho smesso il caffè che mi produceva insonnia. Non voglio parlare della mia
alimentazione attuale perchè penso che questa vada calibrata sul fisico di
ciascuno di noi e quindi credo che non esistano diete valide per tutti. Penso
però che quando una persona va in pensione se mantiene l’alimentazione che
teneva nel pieno della sua attività lavorativa, magari per mantenere in pieno i
rapporti sessuali e la sua vigoria fisica, corra dei forti rischi per la sua
salute. E’ un po’ come quello che succede con un motore: se non rallenta a un
certo punto qualche pezzo cede. In conclusione io penso che se durante la sua
esistenza l’uomo sa regolare la sua vita alimentare può, in linea di massima,
raggiungere un’età molto più elevata rispetto alle generazioni passate. A meno
che non intervengano delle malattie tuttora incurabili.
Concludo dicendo che la vita è un dono meraviglioso,
specialmente quando si ha la fortuna di viverla nella pace, nel lavoro e nella
libertà.
Leone Sacchi
Bologna 4/9/2006
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