giovedì 9 gennaio 2014

INTERVISTA A LEONE SACCHI

http://www.anpipianoro.it/memoria-nazionale/intervista-a-leone-sacchi.html

D. Caro Leone. Oggi tu hai compiuto 92 anni. Si può dire che ormai sei uno dei pochi testimoni diretti della storia del primo novecento. Cosa ti ricordi della nascita e dell’ estensione delle idee socialiste a Migliarina dopo la prima guerra mondiale.
Innanzitutto sul piano generale va sottolineato che la miseria già esistente prima della guerra fra la povera gente si era aggravata a causa delle spese belliche. I proprietari terrieri avevano assunto alle proprie dipendenze i cosiddetti boari. Erano famiglie povere, che servivano al padrone per i fabbisogni della sua famiglia, per tutti i lavori domestici ed anche per condurre i lavori della campagna.
Esistevano anche i contratti a mezzadria. Il mezzadro era un contadino un po’ meno povero del boaro. Tant’é che, a sue spese, metteva tutte le attrezzature per la conduzione del podere. Anche i mezzadri, però in certi momenti dovevano andare ad aiutare la famiglia del padrone. I più fortunati, fra i lavoratori agricoli erano i piccoli proprietari, che lavoravano su un appezzamento di terreno, magari piccolo, ma di loro proprietà. Per la verità molto spesso vivevano peggio degli altri, dovendo fare i salti mortali per riuscire a sbarcare il lunario, senza indebitarsi e correre il rischio di perdere il loro piccolo privilegio, la proprietà del podere.
I braccianti invece non avevano della terra da lavorare in proprio. “Andavano a giornata” come si era soliti dire, nel senso che venivano assunti di giorno in giorno ed andavano a lavorare dove erano richiesti. Lavoravano al massimo 150 giorni all’anno. Solo in certi periodi o per certi grandi opere il lavoro poteva diventare continuativo. Ad esempio nell’immediato dopoguerra, nel 1918, i braccianti con le carriole caricate sui camion andavano a lavorare a Boretto, dove si stavano facendo i lavori di bonifica. I braccianti rappresentavano la classe sociale più povera. Quando mancava il lavoro per sopravvivere si arrangiavano rubacchiando un po’ di patate o qualche ortaggio dai campi dei contadini. Da noi al caseificio venivano a rubare qualche fascina di stecchi per scaldare un po’ la casa quando non andavano a scaldarsi qualche ora nelle stalle dei contadini.
Questa era la situazione in cui viveva la povera gente agli inizi del ventesimo secolo.
In quel periodo, da noi a Migliarina,  non c’era nessun movimento politico. Si sentiva parlare di qualche personaggio che teneva dei discorsi socialisti, ma  era tutto lì.
Mio padre prendeva quotidianamente il “Corriere della Sera. Qualche operaio che sapeva leggere, veniva a casa nostra per leggerlo, ma la maggior parte erano analfabeti o non prendevano il giornale per ragioni economiche.
D. Quali erano le famiglie notoriamente di idee socialiste?
Nell’ambiente che io frequentavo le famiglie socialiste erano poche. C’era qualcuno, nell’ambito di qualche famiglia, che si interessava di politica e che poteva essere attratto dalle idee socialiste. Ma erano singoli personaggi, senza contatti politici. C’era solo fra la gente il desiderio di una trasformazione sociale conforme ai bisogni economici familiari. Tieni presente però che nel 1921 io avevo appena otto anni e quindi alcuni degli avvenimenti di quel periodo li so perché me li raccontava mio padre. Per di più chi aveva idee socialiste o comunque contrarie al fascismo cercava di tenerle nascoste per evitare delle bastonate, dell’olio di ricino o anche del carcere e del confino. Io mi ricordo che il I° maggio comparivano le bandiere rosse sui pali della luce ed i manifesti contro il fascismo. Però tutto veniva fatto di nascosto. I fascisti avevano a propria disposizione i camion, i manganelli, i carabinieri, i padroni ed in molti casi anche i preti, pronti a denunciarli, a farli licenziare ed arrestare. Ecco perché in quel periodo noi non sapevamo gran che, anche se gran parte della popolazione era contraria alla violenza ed alla dittatura fascista.
Io so, ma più per averlo sentito dire dopo, che per conoscenza diretta, che c’erano degli antifascisti dichiarati e conosciuti. Molti di loro, venivano sistematicamente fermati e portati in carcere, per sicurezza preventiva, quando a Carpi veniva qualche gerarca fascista. Alcuni però furono anche processati e subirono varie condanne al carcere ed al confino. 
I nomi che mi vengono in mente sono quelli di Bruno Belelli, coltivatore diretto; Alfeo Corassori, operaio; Paolo Verzani, un mezzadro che era venuto ad abitare a Migliarina nel 1929; Pio Rossi, operaio agricolo; Aldino Sala, un bracciante che divenne poi capolega; un Lusvardi, bracciante, padre di Valter,fucilato a Carpi in piazza Martiri.
Io ti elenco dei nomi, così come mi vengono in mente, senza un ordine, né alfabetico, né tanto meno di importanza. Mi ricordo di Amilcare Arletti e di Romildo Corradi, che era sempre dentro e fuori dal carcere. Una sera suo fratello, uscendo dal ballo di Migliarina, si mise per errore il mio cappotto. Nella notte vennero ad  arrestare Romildo che andò in galera portandosi il primo cappotto che aveva trovato in casa, cioè il mio. Cosicché, qualche giorno dopo, mi toccò di andarmelo a riprendere in carcere.
Fra gli antifascisti di cui mi ricordo o di cui ho sentito parlare c’era uno dei Ruini, un mezzadro di cui non ricordo il nome, che perse una gamba dentro ad una trebbiatrice. Poi c’era Giovanni Righi, un perseguitato politico fra i più bersagliati, cognato di Marchi Aristide, il bottegaio di Migliarina, che era subentrato ai Righi nella gestione del negozio di generi alimentari. Mi sembra che Giovanni Righi abbia avuto anche qualche incarico di rilievo in Comune, dopo la Liberazione. Per parecchi anni prima di morire fu capo giardiniere a Carpi. Anche Francesco Marchi, cugino di Aristide era attivo in seno al movimento antifascista.
Un altro, che frequentava anche casa nostra e veniva a raccogliere fondi, per il soccorso rosso, era Aldo Ganassi.
Forse c’erano anche degli altri, ma i miei ricordi si fanno molto incerti, un po’ per la mia giovane età di allora ed un po’ per l’età avanzata di oggi. Però se mi lasci qualche giorno di tempo, può darsi che riesca a ricostruire altri ricordi.
  So che le sinistre nel 21 vinsero le elezioni, ma un po’per mancanza di un programma  atto a soddisfare i bisogni del paese, e soprattutto per le violenze alle quali vennero sottoposti, furono costretti a dimettersi. Così fu facile alla dittatura fascista impadronirsi del potere con la violenza.
   Secondo me però la scissione del partito socialista del 1921 fu un grave errore. I due partiti della sinistra, socialista e comunista, invece di cercare la collaborazione, si combatterono per dimostrare ognuno le proprie ragioni. Ma di giusto non c’era niente perché, finché le forze della sinistra rimangono divise saranno sempre sconfitte. Questo era vero nel 1921, ma rimane vero ancora oggi nel 2005.
D. Leone, abbiamo lasciato trascorrere un paio di giorni. Ti sei ricordato qualche altro particolare che vuoi raccontarci?
Debbo confessarti che questa intervista ormai occupa i miei pensieri per buona parte della giornata e anche qualche ora della notte. In effetti mi sono ricordato di altre famiglie di antifascisti. C’era la famiglia Gelmini. Mi pare fossero mezzadri. La famiglia Soragni, braccianti che abitavano in Via Roma, angolo con Via Lunga. I due fratelli Canova, braccianti che abitavano in Via Lunga. Due o tre famiglie: Allegretti di Migliarina. Colanzi  padre e figlio, che abitavano in Via Guastalla, il cui nipote Danilo divenne poi partigiano. Savani Ulisse, genero di Losi Fermo, che abitava alla Cooperativa di Migliarina. C’era anche un certo Bruschi, un bracciante di cui non ricordo il nome, che abitava nel caseggiato di proprietà di Losi.
Tutti questi erano notoriamente antifascisti, ma non subirono persecuzioni, almeno nel senso delle violenze fisiche come bastonature o purghe con l’olio di ricino.
Un fatto di violenza, che credo debba essere segnalato, avvenne invece nella bottega di Alfeo Righi, padre dello squadrista Amedeo. Un certo Cucconi, detto “bicicletta”, che mi pare abitasse nei pressi di Budrione, si trovava nel negozio di Alfeo Righi con un paio di amici, quando quest’ultimo, senza profferire parola, impugnò una bottiglia di vino e gliela spaccò in testa. Il Cucconi grondava sangue dalle ferite prodotte dalle schegge di vetro, ma non ebbe altre conseguenze e l’aggressione rimase impunita. All’origine del gesto c’era forse il fatto che il Cucconi era stato fra i soci fondatori della Cooperativa di generi alimentari, che aveva tolto il monopolio al negozio del Righi, riducendone la clientela e costringendolo a calmierare i prezzi. Ma a questo punto mi viene un dubbio, che non sono in grado di risolvere. Il fatto è assolutamente vero, ma la vittima potrebbe non essere stato il Cucconi, ma uno dei Colanzi.
Fra le famiglie antifasciste va segnalata anche la famiglia Varrini, contadini a mezzadria (credo) che abitavano in Via Lunga, oltre il caseificio Canalino. Essi hanno avuto un figlio partigiano, morto dopo la guerra, forse a seguito di una malattia contratta durante la lotta partigiana. Mi ricordo che il funerale si fermò a Porta Mantova e la banda suonò inni partigiani e ballabili, prima di proseguire per il cimitero.

D. Quali erano le rivendicazioni negli anni immediatamente successivi alla guerra e negli anni che videro la nascita del fascismo ?
Le rivendicazioni più sentite erano il diritto ad un lavoro continuativo per una esistenza migliore. Erano sorti due sindacati. Uno, che credo si chiamasse già C.G.L., che difendeva i diritti dei lavoratori. L’altro, il Sindacato Bianco, era il sindacato dei padroni, ma vi aderivano anche contadini e mezzadri per arretratezza politica, ma anche per paura di venire licenziati. Le rivendicazioni erano varie, a seconda delle categorie. Le uniche categorie che non partecipavano a niente erano gli impiegati, sia quelli statali che quelli privati. Le classi sociali più attive politicamente erano invece gli operai delle fabbriche o singole persone che si interessavano di politica ed erano iscritte al Partito Socialista.
D. Quali  ceti sociali che aderirono al fascismo. Ti ricordi di famiglie o di  singole persone  che aderirono?
La nascita del Partito Fascista ebbe inizio intorno al 1921. C’erano state le elezioni, vinte dalle sinistre, a causa del malcontento che serpeggiava fra le masse popolari. Gli agrari, per far fronte alla situazione, assoldarono Mussolini, allora socialista e direttore del giornale “L’Avanti”, che costituì le prime
squadre fasciste con le quali cominciò a terrorizzare il paese, assassinando e massacrando di botte i malcapitati, ritenuti socialisti e quindi sovversivi. A questo proposito vale la pena di ricordare il grave fatto di sangue avvenuto a Modena. Eravamo nel 1922-23. Non ricordo la data esatta. Questore di Pubblica Sicurezza a Modena era Cammeo, già noto antifascista. Mentre girava per Modena, scortato dalle guardie di pubblica sicurezza, venne aggredito dalle squadracce fasciste. Di fronte al pericolo Cammeo diede ordine ai poliziotti di sparare sugli aggressori. Ci furono due morti fra gli squadristi fascisti ed alcuni feriti. Gli altri squadristi se la diedero a gambe e fuggirono.
Cammeo fu trasferito ed i fascisti fecero una canzoncina che diceva: “Dov’è Cammeo, dov’è, in Sant’ Eufemia[1]  non c’è forse sta preparando il macello. Oh San Manganello, aiutaci tu”. Mio padre, commentando i fatti davanti al caseificio, aveva detto che Cammeo aveva fatto bene e subito dopo fu avvicinato da un signorotto, socio del caseificio che lo avvertì, che, se non stava attento a parlare, poteva esserci il manganello anche per lui.[2]
Mi ricordo di un altro orrendo crimine, compiuto dai fascisti a Quartirolo di Carpi. Una sera una squadraccia di fascisti doveva andare a fare una spedizione punitiva, sembra a casa della famiglia Balestrazzi di S.Croce di Carpi. Siccome però la famiglia era stata avvertita e gli antifascisti si erano riuniti e li aspettavano, gli squadristi fascisti, capeggiati dai tristemente noti Rapieri, Cavalli, Gurgo (detto il mantovano) e Tirelli, per paura di avere la peggio, cambiarono obiettivo. Andarono in una casa di Quartirolo di Carpi dove si stava svolgendo una festa privata di ragazzi di 15 e 16 anni. Questi criminali fascisti entrarono in casa e come tanti boia assassinarono due ragazzi. Questo crimine fu messo a tacere comprando le due famiglie delle vittime a suon di milioni. Gli autori di questo crimine non vennero arrestati e non subirono neppure il processo perché fecero risultare che in quella casa c’era un covo di antifascisti. I ceti sociali e le famiglie, che avevano paura di conseguenze spiacevoli per il loro quieto vivere, aderirono al partito fascista e si sottomisero alla feroce dittatura fascista.
Gli squadristi di Migliarina erano, per lo più, figli di gente benestante (o che si riteneva tale).Temevano di essere portati alla rovina economica dalle rivendicazioni dei socialisti. Avevano paura dei socialisti e furono rovinati dal fascismo. A guerra finita si ritrovarono in miseria come quelli contro i quali avevano combattuto.
D. Ci puoi fare qualche nome?
Sono passati ormai tanti anni, ma mi ricordo ancora bene i nomi e le vicende. Vi citerò però soltanto alcuni dei più noti e facinorosi.
Alcide Losi, era figlio di un piccolo industriale del trucciolo. Il padre, Fermo, abitava in una villetta, vicino alla bottega, nella quale aveva ricavato un piccolo laboratorio. Produceva le paglie in modo artigianale o le comprava a Carpi. Nel suo laboratorio aveva una decina di donne che gli facevano le trecce e gli confezionavano i cappelli. Possedeva anche alcune povere case vecchie, che dava in affitto, ed un piccolo podere, gestito a mezzadria, col quale era socio del caseificio, dove lavorava mio padre con la sua famiglia. Alcide, dopo aver sperperato la proprietà del padre, si sposò con una sarta di Carpi, figlia di un noto socialista, e visse alle spalle della moglie fino alla morte.
Amedeo Righi era figlio di Alfeo, il gestore del negozio di generi alimentari e dell’osteria di Migliarina, vicino alla chiesa. Suo padre, vedovo con tre figli aveva sposato in seconde nozze la signora Lucia Dal Giglio, ostetrica comunale, che aveva avuto un figlio, nato prima del matrimonio. Dalla loro unione erano nati altri due figli. La famiglia guadagnava bene, ma attingevano un po’ tutti dal cassetto del negozio, senza alcun controllo e si sentirono minacciati dalla crisi economica del dopoguerra e soprattutto dalla apertura dello spaccio cooperativo che aveva sottratto loro una parte di clientela. Un bel giorno, Amedeo non si fece vedere per un po’ di tempo. Stava in casa e corse voce che fosse stato ferito durante una aggressione squadristica.
A differenza di Amedeo, il figlio naturale della Lucia dal Giglio, Oscar,  amico di mio fratello Marino, abbracciò le idee socialiste, con grande scandalo di tutta la famiglia.
Verso il 1921 la cooperativa di consumo di Migliarina, che gestiva un negozio di generi alimentari, con annessa osteria, in un vecchio fabbricato posto al confine con Budrione, costruì un nuovo fabbricato, adibito solo alla vendita di generi alimentari. Il negozio dei Righi subì un danno immediato, sia per la perdita di clienti, sia per il fatto di dover adattare i prezzi a quelli che praticava la cooperativa.
Gli squadristi allora tentarono di risolvere il problema con alcune taniche di benzina. L’incendio bruciò la porta posteriore del negozio, ma i danni furono lievi e la cooperativa poté continuare la sua attività.  A seguito della crisi economica e di un infarto, che poco dopo colpì il capo famiglia, i Righi furono costretti a cedere il negozio ed andarono a vivere in affitto nelle vecchie scuole comunali. Amedeo ed una sorella andarono invece a vivere in un povero tugurio di proprietà di Cattini, dove vissero per un po’ di tempo in miseria. Amedeo morì poi all’età di sessant’anni di tubercolosi.
Luigi Cattini, detto il mastino, a causa della sua struttura fisica, era figlio di piccoli proprietari che lavoravano direttamente il podere. Erano soci del caseificio ed anche proprietari di una quota dello stesso. Con la crisi economica del 1929, non furono in grado di pagare i debiti che avevano contratto e furono costretti al fallimento.  Dopo la caduta del fascismo, il 25 luglio 1943, aderì alla Repubblica di Salò, ma io non so quello che di fatto lui fece in quel periodo.
Alla fine della guerra, dopo il 1945, cercò di fuggire verso la Germania, ma per mancanza di mezzi fu costretto a ritornare a casa. Visse  in affitto per un paio di anni, in un appartamento, nella villa di Cigarini e poi trovò un podere a mezzadria, sempre a Quartirolo. Qualcuno, che non si era dimenticato delle bastonate che aveva elargito, non ritenendosi pago del condono, lo ripagò con la stessa moneta, ma non ci furono ulteriori strascichi.
Alcibiade Tapparelli, era proprietario a Migliarina di un grosso podere, condotto a mezzadria. Aveva contratto un matrimonio con una ricca ereditiera, ma si mangiò tutto con una vita da scapestrato. Visse gli ultimi anni in miseria, aiutato da suo fratello Alfredo, che pure, possedeva delle proprietà a Migliarina.
Gaetano Varrini , sposato con figli, viveva di espedienti giornalieri. Si era aggregato ai picchiatori perché pagavano bene. Si divise dalla moglie e finì a fare il boaro alle dipendenze di un macellaio di Carpi.
Appio Salvarani,  era un scavezzacollo, sempre all’osteria. Visse per molti anni a carico della mamma, bidella nelle scuole Comunali di Migliarina. Dopo il matrimonio e la nascita della figlia fece la guardia notturna a Carpi e poi andò a lavorare nell’Abissinia, occupata dalle truppe italiane. Ritornò in Italia nel 1945, ammalato di sifilide e morì pochi anni dopo.
 Anacleto Verini, fu guardia notturna e lavorò anche come garzone di casaro. Morì di tubercolosi durante l’ultima guerra. Qualche giorno prima di morire volle al suo capezzale i miei fratelli, Marino ed Alfredo, forse per farsi perdonare il male che aveva fatto durante la sua appartenenza allo squadrismo fascista.
D. Leone, saresti anche in grado di descriverci alcune delle azioni squadristiche che ebbero luogo a Migliarina?
Certamente.  Prima però di passare a descrivere alcune delle azioni commesse da questo gruppo di facinorosi, voglio precisare che, di norma, le azioni delittuose o anche le bastonature venivano fatte in gruppo e di notte. Gli squadristi, vestiti con la camicia nera, con un copricapo a forma di fez nero con teschio, armati di manganelli, di sciabole e pugnali, salivano sui camion che scorrazzavano su tutto il territorio comunale ed anche oltre. Arrivavano nelle zone prestabilite ed aggredivano le vittime designate, terrorizzando la popolazione. Bastonavano, rompevano ossa e teste e poi costringevano le proprie vittime a bere un bicchiere di olio di ricino. Va anche detto, ad onor del vero, che le forze dell’ordine non intervenivano mai a difendere le vittime. Le poche eccezioni , come l’episodio di Cammeo, valgono soltanto a confermare la regola.
 Di preferenza, agivano lontano da casa, per evitare di essere riconosciuti, ma alcune azioni avvennero anche alla luce del sole ed in presenza di testimoni. Di uno di tali fatti fui testimone io stesso.
Nel 1921 morì a Migliarina un certo Ori, che faceva il venditore ambulante insieme a sua moglie, con un povero carretto tirato da un cavallino. Erano noti in tutta Migliarina e Budrione, non solo per la loro attività, ma anche per le loro idee socialiste ed anticlericali. Alla sua morte, Ori volle un funerale civile. Il funerale, al quale prese parte una folla numerosissima anche per quei tempi, si svolse regolarmente e senza incidenti. Ma, all’uscita dal cimitero, all’altezza della ponticella, proprio sul quadrivio,  gli squadristi locali si lanciarono su un certo Pacchioni di Fossoli ed incominciarono a tempestarlo di bastonate. La vittima, cadde in mezzo alla siepe di spine mentre gli aggressori continuavano a bastonarlo. Io ero nel cortile del caseificio a pochi metri di distanza e corsi a chiamare la mamma, che cominciò ad inveire contro di loro, chiamandoli per nome. Smisero di bastonarlo. Forse si erano vergognati per essere stati riconosciuti, o forse lo avevano bastonato abbastanza. Lo avevano talmente massacrato che fu necessario caricarlo su un biroccio per riaccompagnarlo a casa del padre che conduceva un podere a mezzadria con tutta la famiglia. Ci voleva coraggio anche ad  aiutarlo. Si prestò a farlo Bruno Bellelli, un antifascista di Migliarina. A distanza di tanti anni, mi meraviglio ancora al pensiero che fra tanta gente presente al fattaccio, nessuno, all’infuori di mia madre, sia intervenuto a difendere quel povero disgraziato, mentre lo picchiavano.
A Migliarina avvennero altri due fatti delittuosi, di cui però furono responsabili gli squadristi di Carpi.
Il primo avvenne nella sala da ballo, una domenica, credo intorno al 1925, durante una festa da ballo. La festa si stava svolgendo tranquillamente quando, verso le 22 irruppero nella sala le squadracce fasciste di Carpi. Spensero la luce e cominciarono a sparare all’impazzata. Fu anche lanciata una bomba contro il muro esterno, all’altezza della galleria soprastante, che aprì un foro nel muro. Quando si riaccesero le luci, a terra c’era un giovane squadrista,  colpito da un colpo di arma da fuoco. Si trattava di Eugenio Paltrinieri, figlio di una ricca famiglia di proprietari terrieri che avevano un caseificio a Limidi di Soliera. Il giovane fu trasportato agonizzante nella casa di Ilario Savani, dove spirò. Le sue ultime parole furono rivolte alla mamma, che era contraria alla sua adesione alle squadre fasciste e non avrebbe voluto che lui andasse. La polizia perquisì tutti i presenti alla festa ma nessuno risultò in possesso di un arma da sparo, ad eccezione degli assalitori. Era evidente che il Paltrinieri era stato colpito da una “pallottola amica”, ma i fascisti vollero far credere che il giovane fosse stato vittima di una aggressione dei “sovversivi”. Al giovane Paltrinieri “martire fascista caduto per la libertà” fu poi intitolata la  caserma fascista all’interno del Castello dei Pio.
D. Leone, quali furono secondo te i motivi o i pretesti per questo intervento in una sala da ballo, contro dei giovani che si stavano soltanto divertendo.
Fu soltanto una bravata e non fu neppure l’unica. Attacchi di questo genere ne furono effettuati anche in altre zone. Per esempio ci fu un attacco alla sala da ballo di Ganaceto. Questi attacchi avevano lo scopo di terrorizzare la gente, per convincerla che loro erano i più forti e che non ci si poteva opporre, in modo da consentire loro di agire contro chi volevano, sempre e comunque. E’ in questo clima che poi si spiega l’inerzia di centinaia di persone di fronte all’aggressione di uno come Pacchioni. Tutti condannavano, ma nessuno interveniva.
In secondo luogo queste aggressioni, compiute contro ragazzi giovani, che sapevano disarmati, dava loro quella spavalderia e sicurezza, di cui avevano bisogno quando si trattava di andare all’assalto di camere del lavoro o di sedi di partito, che erano presidiate.
D. Ma parlaci pure del secondo grave fatto, al quale accennavi.
Il secondo grave fatto avvenne, mi sembra, intorno al 1926. Anche in questo caso mi torna difficile ricordare la data esatta. Io allora ero un ragazzetto sui tredici anni. In quei giorni nel Teatro Comunale di Carpi si esibiva  una compagnia teatrale, diretta da Mario Mariani, noto antifascista, di idee anarchicheggianti ed anticlericali, non disgiunte da una certa spavalderia. Dopo alcune rappresentazioni il Mariani, insieme al capocomico e ad alcune soubrette, furono invitati dagli squadristi carpigiani ad un banchetto, in loro onore, che si tenne nella sala grande della trattoria gestita da Alfeo Righi, padre dello squadrista Amedeo. Il banchetto fu fatto di giorno.  Io fui testimone diretto di quanto sto per raccontare perché insieme ai figli minori di Alfeo assistevo incuriosito a questo evento eccezionale.
Giunti ai brindisi i fascisti si alzarono in piedi e proposero un brindisi, inneggiando al fascismo. Il Mariani, anch’egli in piedi, disse: “Io sono comunista e me ne vanto”. I fascisti fecero finta di niente, ma due di loro corsero a Carpi a chiedere rinforzi. Terminato il pranzo, si alzarono da tavola e, siccome erano tutti armati, andarono a fare una gara di tiro, usando un vecchio vaso da notte come bersaglio. Spararono finché il Mariani non ebbe esaurito le sue cartucce. Nel frattempo da Carpi arrivarono due camion di fascisti che si scagliarono sul Mariani e cominciarono a picchiarlo. Mi ricordo che eravamo nel periodo della trebbiatura perché il Mariani stava sdraiato su una figna di covoni  mentre i fascisti lo bastonavano. Il capocomico se la cavò con un paio di ceffoni, mentre le due soubrette vennero cosparse di nero sul viso. Al termine della grande impresa squadristica, i fascisti caricarono i malcapitati su una macchina, li portarono alla stazione di Carpi e li spedirono a Milano.
Ma la vicenda non finì lì. Il Mariani descrisse, sulla stampa non ancora completamente asservita al fascismo, il modo vigliacco in cui era stato aggredito e bastonato dagli squadristi di Carpi. Allora, per dimostrare il coraggio degli squadristi carpigiani, il famigerato Rapieri sfidò il Mariani in un duello all’ultimo sangue. Il duello avvenne realmente, anche se ovviamente a quel tempo i duelli erano proibiti. So che si svolse nel mantovano, che il Rapieri fu trafitto ad un braccio e che il duello venne sospeso. Il Rapieri tornò a Carpi come un eroe, mentre il Mariani fu costretto a fuggire in Francia e poi successivamente in America Latina. Qualche anno dopo la stampa riportava un fatto avvenuto, mi pare in Argentina nel 1932. Durante una festa, organizzata dai fascisti, qualcuno si accorse che fra i presenti c’era il Mariani. Lo affrontarono, cercando in malo modo di buttarlo fuori, ma questi, quando stava per essere sopraffatto, estrasse la pistola e sparò, uccidendo due degli aggressori. Non ricordo se ci furono anche dei feriti. Forse l’esperienza di Carpi gli aveva insegnato a non esaurire i colpi in canna.  Intervenne anche Mussolini in persona per chiedere l’espulsione del Mariani e la consegna alle autorità italiane. Il Mariani però non fu espulso perché si dimostrò che aveva agito per legittima difesa.
Dopo la guerra ho provato ad interessarmi della figura del Mariani. Ho potuto sapere soltanto che era un romagnolo e che era rientrato in Italia. Ricordo di aver letto due suoi libri. “Il ritorno di Macchiavelli” era dedicato alla figura di Mussolini mentre l’altro “Le meditazioni di un pazzo” raccontava di un tipo  venuto da un altro mondo che, capitando in una chiesa, frastornato da tutta la simbologia e dalla gestualità della liturgia, crede di essere capitato in un manicomio.
Un altro fatto sconvolgente, capace di  attestare da solo della violenza fascista a Carpi, avvenne intorno agli anni 1925-26. Cortesi, un ricco proprietario terriero con numerosi poderi intorno a Carpi, prese un ragazzo del quale non ricordo il nome, lo legò dietro al sue calesse e lo trascinò fino a Modena, dove arrivò cadavere. Io non so se all’origine di questo delitto ci siano state delle ragioni di carattere personale o politico o altro. Sta di fatto che, anche in questo caso, il delitto rimase impunito. Finita la guerra il Cortesi venne ucciso nella sua cantina, dove aveva tentato di nascondersi.

D. Perché i Sacchi non furono mai bastonati?
I Sacchi non furono mai bastonati perché gli squadristi locali erano soci del caseificio alle cui dipendenze noi lavoravamo e quindi ci usavano un certo riguardo. In secondo luogo la nostra famiglia era stimata  ed un’ azione punitiva nei nostri confronti avrebbe sollevato la protesta di tutti i cittadini di Carpi. Perciò, pur sapendo che noi eravamo antifascisti, ci tolleravano per quieto vivere. La nostra famiglia non ha neppure avuto dei morti per cause di guerra e questa è la cosa più importante, ma i fascisti ci hanno derubato di tutti i nostri averi. Noi gestivamo un caseificio in proprio a Quartirolo di
Carpi. Il 18 novembre del 1944, in seguito ad uno scontro armato fra partigiani, tedeschi e brigate nere, venimmo derubati di tutto il formaggio presente nel magazzino, dei maiali e di tutto i beni contenuti nella casa. Poi il caseificio fu dato alle fiamme. Così, privati dei nostri averi andammo a lavorare nei caseifici alle dipendenze delle varie cooperative che operavano nel carpigiano
Finita la guerra abbiamo avuto la soddisfazione di vederci eletti in tre, Marino e Alfredo ed io, nel Consiglio Comunale della Liberazione. Io poi ho fatto parte del comitato di coordinamento per l’accoglienza dei bambini di Napoli, che furono ospitati dalle famiglie di Carpi. Il comitato era presieduto dalla dott.sa Maria Podestà, madre di Sandro Cabassi.


D. Ma tu personalmente non sei mai stato oggetto di aggressioni e violenze?
Si, mi è capitato di rimanere vittima di un episodio di violenza nel gennaio del 1929.  Dall’agosto dell’anno precedente avevamo costituito una piccola orchestra che suonava nel ballo del Salone Moderno di Migliarina, quello, per intenderci, in cui era stato ucciso lo squadrista Eugenio Paltrinieri. Eravamo tutti giovanissimi di 15, 16 anni. Una sera verso l’una di notte tornavo a casa dopo aver suonato. Ero in bicicletta, ma il fanale a carburo mi si era guastato per cui viaggiavo al buio. Del resto la sala da ballo distava poco dal caseificio dove abitavo e quindi conoscevo benissimo la strada. Giunto ad un centinaio di metri da casa vidi un fanale fermo in mezzo alla strada. Infatti, i fanali a carburo, a  differenza di quelli a dinamo, che entrarono in commercio qualche decennio dopo, funzionavano  anche quando la bicicletta era ferma. All’altezza del fanale, mi giunse un colpo di arma da fuoco che ebbi l’impressione mi sfiorasse il viso. All’alt mi fermai molto spaventato e mi rubarono il violino. Ancora spaventato corsi a casa e cominciai a chiamare mio padre.  Contemporaneamente cominciai a sentire dei passi cadenzati lungo la strada che avevo appena percorso e che costeggia il caseificio. Io urlavo, chiedevo aiuto, dicevo che mi avevano rubato il violino, ma i passi continuarono ad avvicinarsi e poi superarono il caseificio e si allontanarono nella notte. Quell’uomo sembrava un fantasma sparito nel nulla. Il mattino successivo andai dai carabinieri di Carpi per denunciare il furto e raccontai dell’uomo che passava sulla strada. Essi lo rintracciarono, Era Luigi Cattini, lo squadrista figlio di un socio del caseificio. Ai carabinieri egli confermò che era passato di lì, ma dichiarò che non aveva sentito niente. Io ero e sono certo che il Cattini mentiva perché di notte e per di più d’inverno le voci si sentono fino a grande distanza, figuriamoci quindi gli spari. Questo fatto mi ha convinto che si sia trattato di un tentativo di intimidazione per farci smettere di suonare, visto che l’orchestra che noi avevamo sostituito era composta da giovani simpatizzanti dei fascisti locali. Comunque, passato lo spavento io ho comperato un altro violino ed ho continuato a suonare con quell’orchestra nel  Salone Moderno ed in altre sale da ballo. Vi confesso però che per molti anni, quando arrivavo sul posto nel quale avevo subito l’aggressione, spingevo al massimo sui pedali.

[1] Sant’Eufemia è il carcere di Modena
[2] Nel libro di Mimmo Franzinelli, “SQUADRISTI- Protagonisti e tecniche della violenza fascista 1919 – 22”, l’episodio di Cammeo è raccontato in questi termini:
26 settembre 1921. A Modena le guardie regie uccidono 8 squadristi. La tensione fra fascisti e forze dell’ordine – originata dalle percosse ad un commissario di PS, che non si era tolto il cappello dinnanzi al gagliardetto – sfocia in sanguinosi scontri di piazza, costati la vita agli squadristi Ezio Bosi, Umberto Carpigiani, Gioachino Galliani, Giovanni Micheli, Arturo Sanlej, Duilio Sinigaglia, Alfredo Zurlato, Tullio Garuti (che morì l’8 ottobre) e a tre guardie regie. Fra i feriti vi è l’On. Marco Vicini. Le proteste fasciste convinsero il governo a esonerare il questore e ad ordinare l’arresto del questore Canmmeo e di un paio di agenti.

Nessun commento:

Posta un commento